All’insegna di una cucina italiana contaminata ha aperto il suo ristorante Yoji Tokuyoshi ex sous chef di Bottura e ha suscitato entusiasmi ma anche critiche
Un benvenuto entusiasta da parte di Carlo Passera
Dal sito Identità Golose
3 marzo 2015
Tokuyoshi senza se né ma
Lo chef ex-Bottura non accetta compromessi: aromi marcati, personalità, cucina d’alta classe
Avevamo raccontato l’imminente arrivo in città di uno degli chef più attesi di questi frenetici mesi pre-Expo, il giapponese Yoji Tokuyoshi, 37 anni. Complice la fretta di alzare le serrande in tempo per servire i primi pasti in occasione di Identità Milano 2015, non tutto nei giorni d’esordio pareva essere andato per il verso giusto. Siamo andati a cenare da Tokuyoshi qualche sera fa. Cosa abbiamo potuto annotare sul nostro taccuino di cronisti del buono?
1) La Milano gastronomica è oggi più ricca: l’ex secondo di Massimo Bottura è un talento puro. Si possono discutere i suoi piatti, ma è impossibile non riconoscere le stigmate del fuoriclasse.
2) La cucina ci ha convinto. Non nel senso che sia esente da errori. Però mostra un evidente marchio d’autore; anche scelte border line derivano da consapevolezza e personalità. Il difetto si trova, ma in un contesto di livello e che trasuda potenziale, perché ha classe da vendere.
3) Dove potete gustare, a Milano e dintorni, un degustazione totalmente inedito, costituito da piatti originali, eleganti, frutto di una “contaminazione” (per usare le parole dello chef) fertile? Solo qui, aspettando al limite Milone-Iannotti nel Ventre del Boscolo.
4) Ad altri potrà dispiacere, ma noi invece apprezziamo il rigore, la coerenza con i quali Tokuyoshi ha deciso di proporre la sua cucina senza compromessi o ruffianerie piacione – noi abbiamo assaggiato quel menu Sensazioni, proposto a 80 euro, che “rappresenta l’idea della cucina contaminata”, ossia riflette al meglio lo stile che lo chef vuole proporre alla città. Abbiamo trovato vivande molto spinte su picchi aromatici, con un’insistenza evidente sulle note acide, penso alla Bruschetta di canocchie cui l’arancio e il pomodoro verde conferiscono un’asprezza intensa eppure non eccessiva, e che – pur muscolare – si fonde con la suadenza dolce e iodica del crostaceo. Un piatto a un millimetro dal disequilibrio, ma regge ed è dotato di enorme vigoria.
Calamari in ceviche italiano torna sul tema dell’acidità, che domina la prima parte del menu: i calamari sono appena sbollentati (5 secondi a 90°) in brodo di calamari, poi uniti in matrimonio con questo ceviche nostrano di acqua, pomodoro, limone. Poi basilico, sesamo, cipolla, cavolo marinato, più l’elemento grasso-croccante dato dalle gocce di tempura
5) Che si tratti di scelta stilistica lo aveva dimostrato la prima portata, quel Lacrime di verdure che è un intensissimo brodo di bucce (patata, sedano rapa, topinambur), caramellato e concentrato. Anche qui, papille mitragliate senza tregua, un’esplosione che sveglia il palato, lo stomaco, il cervello. Il tutto, sbocconcellando insipido (ossia: volutamente sciapo) pane maison da abbinare a un portentoso burro nocciola di Normandia, salato, mantecato con mascarpone e un goccio di yogurt, da vietare ai deboli perché crea dipendenza.
6) Vi abbiamo palato finora, in fondo, dei piatti che ci hanno convinto meno. Insieme al servizio, da registrare, e a una proposta geniale ma incidentalmente difettosa. Si tratta di Ossobuco vestito d’inverno, che prende Milano (l’ossobuco) e la reinventa: la carne in spezzatino è bagnata con un brodo di cavolo romano e cavolo nero e ricoperta di verdure di stagione disidratate, croccanti. Sarebbe tutto superlativo se, nel nostro caso, l’ossobuco non fosse risultato fibroso, forse mal frollato.
7) Il resto della cena è di livello indiscutibile. Mostra intanto una precisa scelta stilistica portata avanti con sicurezza dei propri mezzi. Se Luca Fantin, miglior cuoco per la guida Identità Golose 2015, usa le grande materie prime giapponesi per cucinare “italiano”, Tokuyoshi sembra il suo alter ego a Milano: pensa alla suggestione di un piatto, di un aroma, di una tradizione tricolore, ma la cucina con occhio nipponico.
8) Pensiamo a due piatti trompe-l’œil come Spaghetti di patate nella patata scavata, tartufo nero e cozze e Riso non riso alla milanese. Sarebbero italiani: pasta e risotto. Sono due miraggi: gli spaghetti di patata, i chicchi di sedano rapa. Non è virtuosismo tecnico fine a sé stesso, banale, ne abbiamo già visti a bizzeffe, anche gli spaghetti di Fabio Abbattista presentati all’ultimo Identità di Pasta sono di patate e rimandano alle fettuccine di palmito pupunha del brasiliano Alex Atala; e vogliamo ricordare certi falsi risotti, quello di verdure di Pedro Subijana, o proprio quello di sedano rapa, cui Salvatore Tassa abbinava finferli e calamaro affumicato? Non è l’idea in sé, ma l’idea più la resa: che nel caso del risotto (la verdura mantecata in amido di riso con brodo vegetale, parmigiano, olio d’oliva, polvere di caffè e zafferano viterbese. No burro!) è ottima; nel caso degli spaghetti, memorabile.
9) Prima di ciascuno dei due falsi primi, due piatti straordinari che commentiamo con altrettante foto. Segue il Dolce e salato: ravioli di zucca e brodo di prosciutto espresso, doveroso omaggio all’Emilia. Colpisce – al di là del contrasto aromatico – la forza strepitosa del brodo.
10) Si chiude con la parte dolce, che non vede cedimenti. Tarte tatin fresca mantiene la promessa, alleggerisce con la mela verde abbinata a biscotto e crema pasticcera bruciata. Cemento e terra è un dessert d’altissima classe, moderno, che amplifica le note terrose del suo nome con gelato al topinambur, crema al mascarpone ed erbe aromatiche, biscotto al cacao salato, riduzione di topinambur e funghi. Il cemento che ricopre il tutto è una meringa al carbone vegetale.
Ben diversa l’opinione di Valerio M. Visintin
Dal blog Mangiare a Milano
Tokuyoshi: caos preterintenzionale
27 marzo
Ci sono casi in cui la distanza tra una solenne fetecchia e un’opera geniale sta tutta nella reputazione dello chef. E nella comprovata intenzionalità che ne consegue.
- Questo piatto fa schifo per questo e per quest’altro motivo.
– Ma che dici? Guarda che quell’effetto lì è voluto.
– È voluto?
Voragini di imprecisioni, di azzardi velleitari e di manchevolezze s’accoccolano al riparo di queste due parole, esibite all’occorrenza come un salvacondotto.
– È voluto.
– Sarà, ma è tremendo.
– Ti ho detto che è voluto. Se non capisci l’arte, la colpa è tua.
– Eh, hai ragione, allora: è arte.
Arte come sublimazione, come percorso misterico, viaggio sensoriale. Se ne può discutere cautamente, ma non la si può giudicare. Eventuali scetticismi o disappunti sono a carico del mittente e della sua limitatezza d’intelletto. Stando a questo invalicabile teorema, praticato con crescente vigore dalla moderna critica gastronomica, debbo arguire che nella sala crepuscolare e verdolona di Yoji Tokuyoshi, già braccio destro di Bottura, tutto è fortissimamente voluto.
AMBIENTE E SERVIZIO Se non si sceglie un tavolo, ci si accomoda al banco, dietro al quale sfila una truce collezione di lame da taglio calamitate alla parete e pronte all’uso come nelle macellerie. In ogni caso, ovviamente, le tovaglie sono bandite. Per cui, con lo scorrere della serata, sul piano si comporrà una tavolozza di gocce e di impronte bisunte, nella raggelante indifferenza dei camerieri. A costoro toccherebbe imputare altri ammanchi, che si accentuano col passare dei minuti come per effetto di un progressivo logorio: ordinazioni che non arrivano mai alla meta, latitanze simultanee, tentennamenti vari. Siccome la sala è tutt’altro che gremita e i ritmi del servizio hanno una cadenza letargica, è facile intuire che l’approccio svagato e sonnolento sia voluto, per l’appunto. Più difficile stabilirne il movente. MENU Il menu è diviso in tre capitoli. Ma soltanto il primo contiene informazioni di qualche utilità. Quello, cioè, denominato “Passato”. Sul quale sfila una serie di piatti della tradizione nazionale con speciale dedica all’Emilia botturiana. Il secondo, “Presente”, non contempla nessuna voce, poiché consegna l’incauto avventore nelle mani prodigiose dello chef, che farà di testa propria. Il terzo, “Futuro”, è puramente virtuale: annuncia gli ingredienti che troveremo tra un paio di settimane, caso mai una botta di autolesionismo o un’improvvisa amnesia ci spingesse a replicare la visita.
CUCINA Scartata l’ipotesi passatista, che sembra strappata alla routine di una trattoria paesana, non resta che scegliere l’incognita. “Presente” costa 80 euro (bere a parte). Nove portate a sorpresa, ci dicono. Detto fra noi, ne abbiamo contate otto. Ma ci siamo ben guardati dal reclamare, avendo compreso a nostre spese che un certo tipo d’arte va assunto a piccole dosi. Con flemma suprema, nell’arco di un paio d’ore almeno, sfileranno davanti ai nostri occhi le perle di Tokuyoshi. Il quale sbuca sovente dalla cucina, a testa bassa in preda al furore creativo, per assestare gli ultimi meticolosi tocchi di magia alle sue invenzioni. Se il testimone tra un assaggio e l’altro è quasi sempre uno scambio disarmonico tra spinte inconciliabili, ogni singola portata sembra vivere una crisi interiore, un caos preterintenzionale che si riverbera anche sul piano estetico. Ci si nutre di elucubrazioni complesse. E, tuttavia, non sempre profonde. Come per la versione papposa e abulica del risotto alla milanese, dove il riso, assente, è inutilmente parodiato dal sedano rapa. Ci informano che si tratta di un omaggio a Milano. Il mio commensale, dopo la prima forchettata, mi domanda malinconico: ma cosa gli ha fatto di male la nostra città?
Per non dire della non gradevolissima “bruschetta di canocchie”. Ovvero: la polpa lasciva del crostaceo stremata dall’asprezza degli agrumi su un supporto di pane sabbioso.
In questa staffetta di lampi immaginifici, rimbalza un esercizio di classicità. Sono i cosiddetti “tortelli di melanzane in brodo di Parmigiano”. Un salto all’indietro nel passato che inciampa, banalmente, su un’esecuzione mediocre: pasta grossolana, cottura acerba, ripieno inerte, nessuna fragranza nel gusto del brodo di Parmigiano.
Arriva infine il dolce, col suo straordinario carico metaforico. “Cemento e Terra”. Per il cemento, tre piccole lastre di meringa grigia al carbone vegetale, sottili e irregolari. A simulacro della Madre Terra che spezza il giogo dell’asfalto, un premasticato, bianchiccio e sciocco, al topinambur nel quale è celata una fettina di fungo crudo. Con essa, presumo, si intende simboleggiare la sotterranea, eppur incessante, ribellione della Natura nei confronti della scellerata opera umana.
CONCLUSIONI La linea narrativa di una cucina può essere elaborata, complessa, cerebrale. Ma non può limitarsi all’esposizione di un concetto, trascurando la funzione gastronomica. Tanto più se il pensiero vola basso, prevedibile o retorico, e si incarta su se stesso; corroborato, al più, dall’intenzione di stupire per distinguersi e timbrare la propria diversità. Ero ancora un giovanotto di belle speranze, quando ebbi l’onore di conversare per un’oretta con Giuseppe Pontiggia, scrittore e grande critico letterario. Mi disse, più o meno: - La risposta più frequente degli autori, quando rilevo quel che giudico un’incoerenza, un manierismo o una falla nei loro scritti, è: “Ma guarda che è voluto”. E io gli rispondo: proprio questo è il problema, caro, hai voluto la cosa sbagliata.