Una storia avvincente e degna di un libro, anzi, che è già un libro – “Milano È la Vigna di Leonardo” di Luca Maroni – e che presto sarà un docufilm e che inizia in un lontano passato ma ha un finale quasi avveniristico. Una conclusione che ricorda i romanzi di Michael Crichton con genetisti che riportano in vita quel che sembrava ormai perduto per sempre. Protagonista Leonardo da Vinci, qui, però, non c’entrano i suoi codici e i suoi segreti tanto cari a Dan Brown, né le affinità, più o meno reali, con i templari o altre sette misteriose. Quel che conta, invece, è l’interesse del genio vinciano per la buona tavola e soprattutto il vino. La passione per la cucina, infatti, accompagnò Leonardo per tutta la vita. Vegetariano, ma anche innovatore, fin da giovane ebbe stretti rapporti con il mondo della ristorazione: per mantenersi, mentre studiava nella Bottega del Verrocchio, sembra lavorasse in una taverna fiorentina; successivamente fu sul punto di rilevare, in società con il Botticelli, un’osteria. Una volta a Milano divenne Gran Maestro di feste e banchetti alla corte degli Sforza, incarico che ricoprì per un lungo periodo e che ne fece un esperto gourmet.
Non stupisce, dunque, che Ludovico il Moro, nel 1498, gli abbia donato una vigna, situata proprio a due passi da Santa Maria delle Grazie, dove Leonardo stava affrescando il refettorio del convento con l’Ultima Cena.
La vigna, di cui l’artista parla anche in alcuni scritti, era un appezzamento di “15 pertiche e tre quarti” (larga 59 metri e lunga 175 metri) di forma rettangolare e si trovava in mezzo ai campi presso Porta Vercellina, in fondo all’attuale giardino della Casa degli Atellani, in corso Magenta 65. Alla morte di Leonardo, ad Amboise in Francia, il 2 maggio 1519, la vigna fu divisa in parti uguali tra Giovanbattista Villani, il servitore che l’aveva seguito fino alla fine e l’allievo prediletto Gian
Giacomo Caprotti detto il Salaì. Della vigna non si hanno più notizie per circa quattro secoli, fino agli anni ‘20 del secolo scorso, quando la casa degli Atellani è stata ristrutturata. I bombardamenti del 1943 e il successivo incendio, però, distrussero il piccolo vigneto. Ma proprio la causa della sua scomparsa ha fatto venire in mente a Luca Maroni, analista sensoriale, enologo ed editore dell’Annuario dei Migliori Vini Italiani, che si potesse riportarla in vita. Perché se la responsabilità era da attribuire a un incendio, sottoterra potevano esserci ancora le radici integre. Fu così che nell’ottobre del 2007, sotto la guida del Professor Attilio Scienza, il massimo esperto vivente di vite nel mondo e docente di Viticoltura presso l’Università degli Studi Milano, sono iniziati gli scavi che hanno portato alla luce residui vegetali ancora vivi e, visto il soddisfacente stato di conservazione, è stato possibile estrarre del DNA ancora non degradato e perciò geneticamente identificabile.
Nel 2014 l’Università di Milano è giunta alla sua identificazione certa: si trattava di Malvasia di Candia Aromatica. L’ultimo obiettivo della ricerca scientifica da raggiungere era quello di individuare la specie, ossia il clone di Malvasia di Candia Aromatica ancora esistente geneticamente più conforme a quella ritrovata. A occuparsene è stata la genetista Serena Imazio che ha comparato il DNA della vite originaria di Leonardo con quello di pressoché tutte le Malvasia di Candia coltivate oggi in Italia e ha individuato le più rilevanti aderenze genetiche con un clone coltivato dal Consorzio di Tutela dei vini Doc dei Colli Piacentini. Le viti così selezionate e individuate sono state reimpiantate nella Casa degli Atellani il 20 marzo 2015.
Tra non molto, dunque, potremo assaggiare il vino di Leonardo. E sarà senza dubbio uno dei lasciti più interessanti di Expo 2015. Ma che vino degusteremo?
Con la Malvasia di Candia Aromatica, per la verità, si producono più vini. Si tratta, infatti, di un vitigno antico proveniente dalla Grecia, il cui nome deriva da Monembasia, città e porto nel sud del Peloponneso. In Italia, la Malvasia fu importata nelle sue numerose varianti a partire dal 1300 dai veneziani che la apprezzavano particolarmente, tanto che nella città lagunare erano presenti molte osterie, chiamate “malvase”, dedite al suo consumo.
Per quanto riguarda la Malvasia di Candia Aromatica, si tratta di una delle 17 diverse varietà italiane di Malvasia ed è una delle più caratteristiche e versatili. Produce un vino è di colore giallo paglierino con riflessi verdognoli e presenta un corredo aromatico particolarmente ricco e complesso con un ampio spettro di aromi primari di arancio, cedro, limone, note fruttate di pesca, albicocca, e floreali (acacia, fresia e lavanda). Un vitigno dalle grandi potenzialità, dunque, e che è componente primario di un certo numero di vini secchi e semidolci, nelle versioni fermo, leggermente frizzante, frizzante e passito.